LA CASA
L’economia di Lodrino
dagli inizi del XX° secolo e sino al 1950 si basava principalmente
sull’agricoltura, sull’allevamento del bestiame e sullo sfruttamento
del bosco. Spesso in una casa vivevano insieme nonni, figli, nipoti ed
altri congiunti. Questa numerosa convivenza era dettata dalla necessità
primaria di poter disporre della forza lavoro di più componenti
del nucleo parentale cosicché in modo reciproco contribuivano al
sostentamento della famiglia allargata. Adulti e bambini, data la scarsità
di mezzi tecnici, all’aperto od in casa svolgevano compiti ben precisi
in rapporto alle proprie abilità e capacità. I guadagni
però risultavano spesso insufficienti ed era giocoforza cercare
lavoro altrove. Le ragazze si mettevano al servizio, come cameriere, presso
famiglie più abbienti; altre, nella tarda primavera, andavano come
mondine nelle risaie del Pavese e del Vercellese. Interi nuclei familiari,
attirati dalle buone prospettive di lavoro, emigravano verso le zone di
bonifica. In occasione di particolari lavori stagionali molti, come braccianti,
lavoravano presso ricchi proprietari ricevendo come compenso il solo cibo.
I più abili e robusti, come boscaioli o falciatori, andavano a
giornata nei paesi vicini. Altri, come minatori e carpentieri, emigravano
verso i paesi più ricchi di risorse del Nord Europa
La Cucina
Il grande focolare della cucina era il centro della vita familiare. Il
mattino, molto presto, la massaia toglieva la cenere dai tizzoni ricoperti
la sera precedente. Afferrava un po’ di legna minuta, la posava
sulla brace e soffiava col sopiet fin quando si accendeva una piccola
fiamma. Appendeva alla catena una pentola piena d’acqua; per scaldarla
ravvivava il fuoco con altra legna più grossa. Appoggiava su un
treppiede, vicino alla viva fiamma, un pentolino pieno di latte per servirlo
fumante sulla tavola a quanti lo consumavano per colazione. In cucina
i mobili erano scarsi e raramente belli; farina e crusca si conservavano
nella madia di legno. Il sale, lo zucchero, gli zolfanelli venivano posti
sopra la mensola della cappa del camino. Poche le posate e le stoviglie
che si utilizzavano nei pasti; si usavano per lo più cucchiai in
legno, ciotole e piatti di alluminio e gavette militari. In una stanza
più fresca, che di solito era quella meno esposta al sole, si mettevano
le poche provviste. I cibi più soggetti al deperimento si riponevano
in una gabbia di rete metallica assai fitta; ciò per ripararli
dalle mosche e dagli attacchi dei topi. La carne, previa cottura, disposta
a strati e coperta di strutto, veniva introdotta in vasi di terracotta
dove si conservava a lungo. Le pentole, le padelle, i paioli di rame usati
per cucinare variavano nella forma e nella grandezza; solo alcuni pezzi
erano in ghisa o in bronzo. Il rame era il metallo più comunemente
usato. Molti di essi, all’interno, risultavano ricoperti di un sottile
strato di stagno perché questo serviva a prevenire il formarsi
del verderame, una sostanza pericolosa che inquinava gli alimenti. Le
donne, nella settimana precedente la Pasqua, si dedicavano alla pulizia
del rame lustrando con sabbia, cenere e soda, i soli detersivi allora
in uso. Ai bambini, in questo periodo, si affidavano le catene del focolare
perché le ripulissero trascinandole lungo le strade non asfaltate
con gran loro divertimento.
La Camera
Nelle camere non esisteva alcun impianto di riscaldamento. D’inverno
per avere almeno le lenzuola calde e asciutte, si infilava nel letto un
trabiccolo di legno su cui si appoggiava uno scaldino pieno di braci del
focolare. D’estate si dormiva sul saccone pieno di foglie di granoturco.
I cuscini spesso erano di piume d’oca o di gallina. La casa non
aveva servizi igienici. Per le piccole necessità urgenti si usava
il vaso da notte in ferro smaltato o in terracotta verniciato; oggetto
tanto utile e necessario da figurare spesso tra i regali di nozze. In
un angolo della camera si trovava, per così dire, il bagno. L’arredo
consisteva in uno specchio appeso al muro e in un portacatino metallico
destinato a sostenere il catino e la brocca dell’acqua per lavarsi.
Appesi al portacatino c'erano grossi asciugamani di tela ruvida, tessuta
in casa.
Il Bucato
In casa, il grande bucato veniva generalmente fatto ogni due – tre
mesi insieme ad altre famiglie. Richiedeva spesso due giorni di lavoro
e la collaborazione di parecchie donne. Non poche, infatti, erano quelle
che per raggranellare qualche soldo svolgevano questa mansione per conto
terzi. Le operazioni avevano solitamente questa sequenza: al mattino presto
si accendeva il fuoco sotto un grosso pentolone nel quale si buttava la
cenere del focolare allorché l’acqua bolliva. Si otteneva
rimescolando con un bastone un liquido grigiastro denominato lisciva.
Questa era successivamente riversata sulla biancheria disposta a strati
in un grande mastello di legno posto su un cavalletto di legno a forma
di croce. Il recipiente ( mastello ) di forma troncoconica recava sulla
base un foro chiuso da un grosso tappo di legno. Un riquadro di tela grossolana,
sopra la biancheria, fungeva da filtro impedendo alla cenere di venire
a contatto col bucato. Dopo alcune ore si toglieva il tappo al mastello
e tutta la lisciva fuoriuscita si rimetteva nel pentolone in precedenza
ripulito, con l’aggiunta di altra acqua. Si ritornava a far ribollire
il tutto e quindi con l’aiuto di un secchio si riversava la lisciva
bollente sulla biancheria. In genere questo rilavaggio si ripeteva almeno
tre volte. Alla fine di tutto si lasciava in ammollo per l’intera
notte. Era in uso coprire il mastello con assi e sopra porre altri panni
per impedire al " besmoi"( acqua + lisciva ) di raffreddarsi
rapidamente. Il mattino seguente si toglieva nuovamente la lisciva dal
mastello grande, la si metteva in un altro più piccolo aggiungendovi
acqua calda. Sulle doghe si poneva un’asse da lavare e mediante
spazzole di saggina la massaia strofinava e sbatteva energicamente i panni
precedentemente insaponati. Anche dopo quest’ultimo lavaggio la
lisciva veniva ancora utilizzata per bagnare e lavare gli indumenti colorati.
Le donne, a due a due, con un paletto posto di traverso sulle spalle,
trasportavano la biancheria al lavatoio pubblico per procedere ad un lungo
risciacquo. Immergevano i panni nell’acqua corrente, li sbattevano
energicamente sulla pietra e li strizzavano. La biancheria, riportata
a casa, veniva posta a gocciolare sopra un alto cavalletto ed infine distesa
sui fili da asciugare. Qualche volta, purtroppo, non tutti i capi risultavano
puliti e bianchi. Nella bella stagione si distendevano sull’erba
bagnata di rugiada e li si esponeva all’azione sbiancante del sole.
Si osservi che tutte le operazioni della "Bugada" tradizionale
ora sono svolte egregiamente dalla lavatrice dove l’azione della
lisciva è sostituita dal detersivo ( che come nella lisciva contiene
fosfati e potassio ) e l’azione meccanica è svolta dalla
rotazione del cestello.
La Stalla
Una volta la stalla con gli animali era parte integrante dell’abitazione
del contadino. Rappresentava un luogo di ritrovo per piccoli ed adulti
senza distinzione d’età. Nella cascina la stalla era situata
sempre al piano terra, di fianco alla cucina e da questa vi si accedeva
direttamente attraverso una porta interna. Al piano rialzato, sopra la
cucina e la cantina si trovavano le camere alle quali si saliva attraverso
scale con gradini in legno. Il grande fienile con pavimento d’assi
fungeva da soffitto alla stalla e da un’apertura del pavimento si
gettava al di sotto il fieno per le mucche. L’ambiente si suddivideva
in due parti: una riservata al bestiame e l’altra alle persone.
In autunno ed in inverno era il luogo più caldo della casa. I membri
delle famiglie ospitavano spesso anche i vicini che a titolo di amicizia
recavano in dono alcuni cibi che venivano consumati durante le serate.
Gli uomini, in genere, parlavano dei loro affari, preparavano o riparavano
attrezzi, fabbricavano zoccoli o utensili da cucina. Le donne filavano
la lana, rammendavano e lavoravano a maglia o all’uncinetto. Giovani
e ragazze intrecciavano relazioni amorose; i nonni raccontavano ai bambini
vecchie storie di fantasmi e di diavoli. Nel mese di maggio si recitava
il rosario ed in novembre ricorrevano le litanie per i defunti. La vita
aveva ritmi e tempi di lavoro oggi inusuali. Al mattino presto il contadino
dava la prima razione di fieno e procedeva alla mungitura. Dopo la mungitura
la mucca era portata all’abbeverata. Intanto si eseguiva la pulizia
della stalla: gli escrementi erano ammucchiati nella concimaia e la lettiera
degli animali veniva cosparsa di foglie secche per permettere ad essi
di stare all’asciutto. Verso sera, cioè dopo circa 12 ore
dalla prima mungitura, veniva data la seconda razione di fieno a cui seguiva
un’altra mungitura.